Il trattato decisivo
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Averroé, arabo nato nel 1126 a Cordova (Spagna), divenne presto noto in Occidente grazie ai suoi prestigiosi commentari delle opere di Aristotele e Platone: adottati come “testi di riferimento” nella emergente Facoltà delle Arti di Parigi, vennero utilizzati anche da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. «Averoìs ch’el gran commento feo», con queste parole viene ricordato da Dante, che lo colloca nel Limbo, in compagnia di sapienti e patriarchi. Dissidi interni alla nascente università, porteranno all’accusa – errata – di essere sostenitore della dottrina della “doppia verità”; la sua immagine, così, muterà drasticamente: ne sono lampante prova i numerosi affreschi nei quali è rappresentato con scherno e disprezzo. Con Il Trattato decisivo sulla natura della connessione tra Religione e Filosofia, sconosciuto nel medioevo latino, Averroé vuole dimostrare che la Religione, se correttamente interpretata, invita alla speculazione razionale. “Il vero non contrasta con vero”, è la formula, di sapore aristotelico, che costituisce lo zoccolo duro delle argomentazioni di questo Trattato; seguendo Averroé, le Scritture e la Scienza non possono che concordare, le contraddizioni che si generano saranno solo apparenti, risolvibili con una lettura allegorica del Testo Sacro.