L'embargo su Trieste
Dalla psicanalisi alla psicoanalisi
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Chi vuole conoscere le origini della psicanalisi in Italia, deve necessariamente passare per la Trieste del primo dopoguerra, quella degli anni Venti.
I fatti sono noti: Edoardo Weiss, il primo psicanalista italiano (formatosi con Paul Federn), invitato alle “riunioni del mercoledì” a casa Freud, con cui era in corrispondenza, apre a Trieste uno studio dove pratica l’analisi, tiene lezioni e conferenze, comincia a tradurre i testi di Freud in italiano. In pochissimo tempo la scintilla appicca il fuoco e l’intellighenzia triestina: poeti, scrittori, scultori, pittori, giornalisti, quasi tutti ebrei bilingui, non possono fare a meno d’identificarsi a questo o quel caso clinico di Freud, di autodiagnosticarsi le più svariate psicopatologie, di (auto)analizzarsi “selvaggiamente”, ma soprattutto di pontificare sul nuovissimo prodotto culturale appena importato e sulle nuove prospettive che può aprire a una città asburgica da oltre cinque secoli, ma appena annessa al Regno d’Italia, sconvolta nell’originaria fisionomia mitteleuropea e cosmopolita e incalzata dalla retorica fascista e dai moti nazionalisti.
Accolta senza riserve (Saba) o criticata aspramente (Svevo), la psicanalisi, che per molti non è solo una novità culturale straordinaria, ma la speranza di una vita nova, infiamma gli animi e li sospinge, per curiosità o per necessità, a entrare in analisi con Weiss all’insegna del motto: “comunque sia, bisogna andarci!”.
Poi, nei primi anni Trenta, con la «fuga» di Weiss a Roma, e la costituzione della Società Psicoanalitica Italiana, il cui primo atto è stato di prendere le distanze da un’origine tanto imbarazzante, è stato posto un “embargo” su Trieste. Così, la psicanalisi “triestina”, selvaggia, poco seria, dilettantesca, affaire di poeti, scrittori, pittori, è diventata la serissima e professionalissima psicoanalisi. Tutta un'altra storia.