I canti di Imhotep
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La pandemia del Covid-19 ha riportato all’evidenza di tutti la secolare, interminabile battaglia tra l’umanità e i virus. Una storia di vittorie ma anche di sconfitte, antica quanto la civiltà stessa, della quale ha seguito il corso, favorita dall’ampliarsi dei contatti, lungo le strade dei commerci, le rotte delle navi, negli spostamenti degli eserciti o nei viaggi di esplorazione. Pestilenze di ogni genere e origine hanno profondamente influenzato la cultura di ogni epoca, diventando materia di opere letterarie, dipinti, musiche, film. A volte si sono divinizzati i medici, come l’egizio Imhotep che dà il titolo alla raccolta, quando non sono stati loro stessi demonizzati, vittime dell’odio generato dall’incontrollabilità del male. L’odio, appunto. Un altro genere di virus, non meno letale. La violenza, l’intolleranza, il fanatismo hanno sparso, e spargono ogni giorno, altrettante vittime dei germi e dei batteri. Anche queste sono epidemie e questa raccolta non le dimentica. Carnefici e vittime sono i protagonisti più dolorosi di una poetica rivolta a rappresentare, anche nelle scelte lessicali e strutturali, una malattia dell’anima oltre – e prima – di quelle del corpo. Lo svolgersi insieme introverso e aulico del discorso poetico, l’infittirsi dei riferimenti e delle citazioni (tanto da considerare le note esplicative quasi parte integrante delle singole poesie) non si propone affatto come esibizione erudita o compiacimento intellettuale, ma – non di rado attraverso l’ironia – di rimarcare lo smarrimento del naufrago nell’oceano del male e il suo aggrapparsi a ogni relitto, alla ricerca di salvezza nelle memorie, nei simboli, nei sogni, nelle filosofie. In sintesi, nelle parole. Le parole sono le protagoniste positive di questa raccolta. Le medicine del male sono loro, le parole. Aspre, difficili, amare, ostiche e ostili: ma terapeutiche. Nel confortare e nell’indicare nuove visioni alla scienza e nuove vie alla convivenza.