Il cielo e il fango
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Il cielo e il fango è il tracciato di una via di fuga, non “da”, ma “verso” qualcosa o Qualcuno. Una fuga non priva di sofferenze, ma la posta in gioco è alta, è la comprensione del mistero non della vita, ma della propria vita.
Umberto, il protagonista di questo “quasi romanzo”, che segue e completa il precedente Andrai e tornerai, a quarant’anni lascia il saio di frate francescano perché si accorge di vivere impastoiato dai dettami evangelici. Penitenza, ascesi, mortificazione, purezza non hanno valore, se non se ne conosce il libero uso.
Lasciare il mondo protetto del convento, significa dover imparare a vivere e, molto prosaicamente, anche imparare a guadagnarsi da vivere, magari facendo il venditore porta a porta di enciclopedie o il rappresentante di occhiali, ma tutto questo, benché difficile e sovente frustrante, è sempre meglio che continuare a camuffarsi con una tonaca marrone che non ci si sente più di portare.
Seguire i binari tracciati da altri, lasciarsi andare, è il modo migliore per perdersi; per Umberto, rimanere francescano e sacerdote avrebbe significato semplicemente consegnarsi al disprezzo di se stesso. Meglio, dunque, avere il coraggio di dubitare, di mettersi in una posizione di ricerca, guardarsi impietosi, mettersi a nudo attraverso l’analisi o anche attraverso la scrittura. Allora, il dubbio diventa risorsa.
Il messaggio che ci lascia Umberto è che, a volte, il fatto che Dio si nasconda ai nostri occhi è una grazia. Ci costringe a non cercare Lui, ma noi stessi. Ritrovandoci, Lo troveremo.
O, comunque, possiamo coltivare questa speranza.