Il pellegrino incantato. Il mancino
Due romanzi brevi
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L’opera di Nikolaj Leskóv è un’indagine dell’animo umano condotta sul campo e senza mediazioni, dove ciò che maggiormente interessa l’autore sono i tipi umani estremi, quelli che più si discostano dalla aurea mediocritas. Leskóv considerava Gogol’ suo maestro, e le Anime morte, con la sua galleria di personaggi, il vangelo russo. «Leskóv, in un certo senso, si sforza di continuare le ricerche di Gogol’», scrive Ejchenbàum nel 1956[1].
Ma i testoni, i bislacchi, gli ossessionati, i maniaci, i geni incompresi e i pellegrini modesti di Leskóv coprono uno spettro sociale assai più ampio, e non si lasciano raccontare da uno scrittore, ma si raccontano da soli. Il “popolo” di Leskóv narra in prima persona e il lettore si trova ad ascoltare la viva voce del novellatore. Sono racconti religiosi, ma in un senso molto particolare. Nel senso più terra terra che si possa immaginare. La manifestazione di Dio non viene cercata in fenomeni soprannaturali, ma nella vita concreta dell’uomo che lavora con le proprie mani. Lo scrittore Leskóv, artigiano che opera con l’occhio, con l’anima e con la mano, lascia che altri artigiani – fabbri, “connesséri”, pittori di icone – creino un mondo capovolto, dove l’unica normalità è la creatività povera, dove paradossalmente l’unico normale è il diverso, vuoi perché ebreo, vuoi perché “giusto”, vuoi perché onesto e fedele allo zar. È una religione in apparenza di stampo calvinista, la religione del fare, ma senza nessun risvolto di tipo produttivistico, anzi: «Favorendo l’aumento degli introiti, le macchine non favoriscono il coraggio artistico, che a volte ha passato la misura, ispirando la fantasia popolare a comporre leggende favolose simili a questa» (Il mancino).