Il secondo addio
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Roma, sul finire degli anni Settanta. La giovane Marie ha lasciato Praga negli anni bui post invasione sovietica e vive in una comune con altri giovani, dividendo il suo desiderio di amore tra il giovane rivoluzionario Mels e il più anziano Pavel, uno storico, amico di suo padre, rimasto in patria, con cui intrattiene un’intensa corrispondenza e una relazione che resta platonica.
La cortina di ferro, il sentimento dell’esilio e la ricerca del sentirsi a casa, una casa concreta e insieme ideale, sempre sul punto di prendere fuoco e che comunque va approntata, perché i bambini nascono, anche se i padri svaniscono e cambiano; il clima dell’Italia – e di Roma – tra gli anni Settanta e Novanta, tra rivoluzione tradita o svanita, fine dei sogni e rifiuti e relitti umani lungo le mura aureliane, rosse dei loro antichi mattoni piatti illuminati dai tramonti del sole romano. È in questo scorcio di tempo (e di spazio) che bisogna formulare un “ secondo addio ”, una volta caduto il Muro: « l’addio finale ai padri nati e morti dietro “ i chiavistelli del tempo totalitario ”» come nota Massimo Rizzante nella sua postfazione.
Il secondo addio è un romanzo dove ognuno dei personaggi parla – o meglio scrive – in prima persona, raccontando, nell’alternanza discontinua delle voci, la sua parte di ricerca di identità e di nuove e vecchie radici, cercando un approdo – o una via di fuga – dopo la caduta delle utopie. Una domanda di senso – della propria vita e della Storia – resa plastica nell’immagine del Narciso Cieco, ovvero di un Narciso che cieco non è, ma non vede altro che sé stesso. Come individuo, e come idea, o ideologia.
Ma Il secondo addio è anche e soprattutto un’esultanza della scrittura, delle sue possibilità: non solo di raccontare qualcosa, ma di farsi strumento di conoscenza e forza ordinatrice, per quanto labile e soggetta a incomprensione e smarrimento. Una scrittura irriducibile che osa andare oltre sé stessa, diventando letteratura nell’accezione più alta.